Pescare non è un hobby, è una malattia. Il vero pescatore si riconosce da come racconta. Se mentre descrive un luccio di sei etti si esalta, allarga le braccia e salta per tutta la stanza, non è un vero pescatore. Ma se balbetta per la commozione, una lacrima gli scende dall’occhio e un bigattino gli sale lungo la manica, ecco il nostro uomo. I veri pescatori sono soli con la loro malattia, come i cinesi con la pipa d’oppio. Il loro colore è un rosso febbrile, dovuto all’esposizione al sole d’acqua dolce, e rilucente di squame di cavedano accumulate con gli anni. Tra di loro comunicano con il rituale preciso e silenzioso. Odiano il rumore, nemico dei pesci, e se vi avvicinate con passo pesante al bancone del bar si voltano e dicono “piano, che mi fai scappare il cappuccino”. In famiglia sono affettuosi, ma di passaggio. Il loro cuore è altrove. Le mogli dei pescatori sono mute eroine che sopportano pazientemente carpe gigantesche nel bidet, invasioni di vermi nel tinello e tonnellate di pesce che nessuno mangia, stipate nei frigoriferi come nelle baleniere norvegesi. I figli dei pescatori hanno del loro genitore immagini fuggenti, due stivali verdi e gocciolanti che si allontanano nella notte. Sul tema in classe scrivono: “Io sono orfano. Mio papà fa il pescatore”. Poi, a dieci anni, l’ereditarietà della malattia li colpisce inesorabilmente. La madre, disperata, li vede consultare le prime cartine idrogeografiche mentre tutti i bambini normali leggono “Playboy”. Vanno di nascosto ai giardini pubblici e catturano pesci rossi gonfi come commendatori. Finché una notte, la madre li vede salire sulla Seicento paterna. Hanno anche loro due stivalini verdi, un berretto alla cretina, una canna e un mulinello. Mentre la madre li saluta sulla soglia col fazzoletto, nota nel loro sguardo la stessa espressione di distacco dalle cose terrene che è del padre. E’ nato un pescatore.

Stefano Benni, Bar sport

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